Quali sono i parametri che influenzano la SEO

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Ogni minuto centinaia di migliaia di persone cercano qualcosa su Google. La SEO è quella disciplina che, se applicata con metodo “scientifico”, ti permette di stare tra i primi risultati della pagina di ricerca.

Il mondo digitale ci accompagna notte e giorno ormai, ed è inutile dire che quando ci serve qualcosa lo cerchiamo proprio lì. A ogni nostra richiesta decine di aziende sono pronte a dare una soluzione. Tra queste, solo quelle che hanno un sito ottimo in fatto di SEO, hanno la preziosa possibilità di acquisire contatti che poi diventeranno nuovi clienti.

Fare la SEO di una pagina web è alquanto complesso: Google considera più di 200 parametri per decidere l’ordine dei risultati delle pagine di ricerca. Questi parametri vanno dalla velocità di caricamento di un sito, alla quantità di keyword che contiene, da quante altre pagine citano quel sito alla struttura gerarchica dei contenuti che presenta.

Lavorare sulla SEO significa dare valore al servizio che offre l’azienda. Senza una SEO solida come una roccia, il rischio è cadere nel dimenticatoio o, peggio, non essere mai scoperti. Cerchiamo quindi prima di partire dalle basi ovvero spiegando la SEO cos’è.

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Cos’è la SEO?

In molti si chiedono cos’è la SEO? SEO significa Search Engine Optimization, ovvero ottimizzazione dei risultati di un motore di ricerca.

Quando viene fatta una ricerca, Google si trova di fronte al mare magno di internet e si chiede quale sia la pagina in assoluto più interessante per l’utente. Non gli vuole dare solo la più interessante in realtà, ma anche quella più chiara, più autorevole e più veloce a caricare. Insomma, una bella missione. Il consulente SEO si occupa di convincere Google che la pagina che rispetta tutti questi parametri è proprio quella della tua azienda.

La “classifica” dei risultati si chiama SERP, ovvero la Search Engine Results Page. Più scaliamo la classifica più sono le probabilità che qualcuno clicchi sul nostro link. La SEO è importante nel marketing per comparire tra i primi risultati e scavalcare così i competitor.

Parametri che influenzano la SEO

Nonostante i fattori che influenzano la SEO siano moltissimi, possiamo citarne alcuni che sembrano avere un grado di rilevanza maggiore agli occhi di Google.

  • La qualità dei contenuti: testi scritti correttamente e in maniera leggibile. Frasi lunghe e complesse sono bandite, mentre è apprezzata la divisione in paragrafi brevi.
  • I fattori tecnici: tempi di caricamento della pagina (che devono stare sotto i 2 secondi), sicurezza del link, usabilità da mobile.
  • Distribuzione delle keyword: le keyword sono ciò che l’utente cerca per trovarti. Queste keyword che vuoi che puntino al tuo sito devono essere ben distribuite sulla pagina (devono essere presenti nel titolo, nelle prime 100 parole e in altri punti strategici). Bisogna però fare attenzione a non esagerare: Google è diventato un esperto a riconoscere il fenomeno del keyword stuffing. Questo si verifica quando gli articoli o i contenuti scritti risultano troppo densi di keyword, sacrificando il senso della lettura e delle informazioni fornite.
  • Link building: l’ultimo fattore primario è la costruzione di una rete di link in entrata e in uscita da e per un sito web. La link building va curata, scegliendo con attenzione i siti a cui si desidera essere associati. L’autorevolezza è un valore importante per Google e viene verificata proprio grazie ai link che rimandano al tuo sito.

 

Fattori di ottimizzazione SEO OnPage

Quando si inizia un percorso di ottimizzazione SEO il primo punto da cui partire è il proprio sito. Esistono diversi accorgimenti che mettono ordine alle tue pagine e le rendono più appetibili per i motori di ricerca. Ad esempio, curare i titoli e le metadescrizioni di tutte le pagine è un buon primo passo. In questi due elementi dovresti inserire le keyword che desideri che rimandino alla tua pagina. Il titolo deve essere breve, coinciso, mentre la metadescrizione esplicativa e invitante per l’utente.

Un altro fattore di ottimizzazione SEO OnPage è la cura dei link interni e in uscita. I link interni collegano diverse pagine del tuo sito e devono essere tutti funzionanti, rapidi e facilmente individuabili dall’utente. Quelli in uscita devono essere inseriti in posizioni strategiche e linkare siti autorevoli nel campo di cui stai parlando.

Altri metodi di ottimizzazione SEO OnPage sono la riscrittura dei metatag delle immagini, la produzione continua di contenuti rilevanti, il miglioramento della visualizzazione da mobile, la diminuzione dei tempi di caricamento e l’implementazione di una crittografia HTTPS sicura.

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SEO oltre il sito aziendale: i backlink

I backlink sono i link in entrata da siti di terze parti verso il tuo. Questi link sono preziosi, perché comunicano a Google che c’è qualcun altro che riconosce la tua competenza e autorevolezza in un certo campo. Costruire una rete di backlink è fondamentale per migliorare la propria SEO agendo off-page. Da evitare è l’acquisto di massa di link da directory di dubbia qualità, perché oltre ad essere inefficaci possono risultare addirittura dannosi all’immagine del tuo sito nei confronti di Google.

Per costruire questa rete stringi accordi con realtà simili alla tua, fai relazioni pubbliche e fai in modo che si parli di te. Una campagna di comunicazione, un cliente soddisfatto, un nuovo servizio e un contenuto di qualità sono tutti dei modi efficaci per ottenere backlink.

Leggi anche l’articolo: Logo: definizione, come creare un logo aziendale, esempi

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Logo: definizione, come creare un logo aziendale, esempi

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Il logo dell’azienda è il simbolo che la rappresenta, esprime i suoi valori, evidenzia ermeticamente tutto ciò che fa. Avere un logo significativo, funzionale e riconoscibile è fondamentale.

La creazione logo è un processo che attraversa delle fasi precise:

  1. La comprensione dell’identità del marchio. Si parte sempre da qui, da chi sei, da quali sono le caratteristiche che più descrivono ciò che fai.
  2. L’ideazione. La parte più creativa: si individuano forme, colori, lettering che traducono in grafica la tua identità. In un logo nulla è fatto per caso: ogni scelta comunica e dunque ogni scelta è importante.
  3. La realizzazione. Fissata l’idea, si realizza. In questa fase si sistemano le proporzioni, si allineano gli spazi e si armonizzano linee e forme, si fa in modo che il logo sia versatile, adattabile ai diversi supporti e dimensioni in cui verrà utilizzato.

Creare un logo è un lavoro che fa parte della progettazione grafica e che risulta creativo e certosino allo stesso tempo. Se è fatto a regola d’arte, alla fine restituisce all’azienda un marchio di cui andare fiera e in cui rispecchiarsi.

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Logo: definizione

La parola logotipo, di cui “logo” è l’abbreviazione, viene dal greco “parola” e “lettera“. Il logo nasce come una parola, un motto, un nome. D’altronde le parole sono il modo che abbiamo per dare un nome alle cose e i loghi hanno proprio questo obiettivo.

Un logo può essere composto da un simbolo, da un nome e/o da un payoff. Il simbolo è il segno grafico, l’icona, la forma non verbale che descrive l’azienda. Il nome è tipicamente quello del brand e il suo claim è il motto, la frase breve che rende comprensibile ciò di cui l’azienda si occupa.

Questi elementi possono essere presenti contemporaneamente oppure no. In base alle diverse combinazioni possibili, abbiamo diverse tipologie di logo.

 

Creare logo aziendale: tipologie

Le tipologie di un logo aziendale si dividono in base a come vengono combinati gli elementi base di un logo: simbolo, nome e payoff. Nel creare un logo aziendale distinguiamo tra:

  • Logotipo: contiene tutto. Un’icona simbolo, il nome del brand e il suo payoff. Spesso prevede versioni di se stesso in cui i singoli elementi vengono scorporati per rendere il logo azienda più versatile.
  • Monogramma: icona realizzata con le iniziali del nome del brand combinate in un carattere unico. Coinciso, chiuso, semplice e spesso subito riconoscibile.
  • Acronimo: simile al monogramma, ma con le lettere posizionate una di seguito all’altra.
  • Segno grafico: sono i loghi composti solamente da un segno grafico. Si tratta di una strada rischiosa da seguire, che possono percorrere in tutta sicurezza solo brand tanto noti da poter rinunciare alla componente verbale per essere riconosciuti.

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Come creare un logo azienda: i colori

Uno degli elementi primari di un logo per azienda è il colore. Nel processo di creazione di loghi ci si chiede fin da subito quali possono essere i colori che descrivono il carattere di un’azienda.

Si tratta di un brand pieno di energia o è calmo e riflessivo? E’ un marchio giocoso, alla mano o d’elite, quasi nobile? Sicuramente l’imprenditore che rappresenta un’azienda sa subito il tono di voce con cui si pone la sua azienda. A questo punto il logo può diventare uno degli asset inclusi nel marketing per PMI.

La teoria dei colori ci insegna come un certo colore trasmette un certo messaggio. Scegliere il colore giusto nella creazione logo significa aggiungere un pezzetto al nostro marchio che permette alle persone di capire a colpo d’occhio chi sei, qual è il tuo colore.

 

Quali caratteristiche sono fondamentali per creare loghi

In creatività non ci sono regole. Bella frase, ma falsa! Nella comunicazione visiva in generale e, nella creazione loghi aziendali in particolare, delle regole ci sono eccome. Certo, possono essere infrante quando ha senso farlo, ma rispettarle permette di creare un oggetto professionale, funzionale e riconoscibile.

Ecco tre caratteristiche fondamentali che in un buon logo non possono mancare:

  • Significato. Ogni scelta deve avere un motivo e il prodotto finale deve in qualche modo rendere accessibile a chi guarda il pensiero che c’è dietro. Se la freccia di Amazon non iniziasse dalla A e non finisse sulla Z sarebbe solo una freccia.
  • Coerenza. Un logo deve essere semplice e complesso allo stesso tempo. Ciò che permette alla complessità di risultare semplice è la coerenza di forme, angoli, spazi, colori tra i vari elementi che costituiscono un logo.
  • Precisione. Creare le giuste proporzioni, rispettare gli allineamenti in modo che l’occhio interpreti armonicamente il logo è ciò che permette al brand di essere percepito come professionale e affidabile.

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Esempi di creazione loghi

Ecco due esempi di loghi che hanno fatto la storia e che sono chiaramente frutto del lavoro di grandi professionisti:

  • FedEx. Il corriere americano ha un logo semplice in cui riporta il suo nome. Magistralmente, nel negative space tra la E e la X si vede una freccia. Mai freccia fu tanto corretta ed esplicativa. FedEx ha anche fatto uno strappo alle regole: i colori sono viola e arancio, inusuali per questo tipo di azienda, ma proprio per questo sono in grado di trasmettere l’identità smart del brand differenziandolo dai competitor.
  • Adidas. Un logo che ci rimane in testa. Le tre stripes sono una scelta intelligente perché rendono il logo versatile e danno una direzione artistica precisa per tutti i prodotti del marchio. Il logotipo è stato realizzato rispettando la regola dei terzi per ottenere proporzioni perfette.

Leggi anche l’articolo: Google My Business: cos’è e quali sono i vantaggi per le PMI

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Google My Business: cos’è e quali sono i vantaggi per le PMI

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Il 18% delle ricerche locali si conclude con un acquisto. Per questo una PMI dovrebbe adottare Google My Business. My Business è uno strumento messo gratuitamente a disposizione da Google dal 2014. Il suo obiettivo: permettere alle persone di trovare l’attività più vicina che può soddisfare la ricerca che sta effettuando in quel momento su un determinato servizio o prodotto.

Google Business è fondamentale per il local marketing: si tratta di un marketing legato al posizionamento e che rappresenta un aspetto altrettanto fondamentale da affiancare al direct marketing, all’affiliate marketing e al branded content marketing.

Grazie a Google My Business le aziende possono migliorare il proprio posizionamento sul motore di ricerca a livello locale e hanno la possibilità di comunicare direttamente con i propri clienti tramite la propria scheda e le recensioni.

In questo articolo scopriamo come è fatto un profilo su My Business e quali sono i vantaggi per un’attività che sfrutta questo strumento nel migliore dei modi.

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Google My Business: cos’è

Google My Business è una piattaforma su cui le aziende hanno la possibilità di creare una scheda. Immaginatelo come un social network in cui, per entrare, devi dimostrare di essere chi dici di essere. Tutti i profili aziendali su My Business, infatti, sono verificati da Google tramite una cartolina spedita per posta in modo da evitare la creazione di utenze false.

Come è fatto questo profilo? Quali sono i suoi elementi principali?

  • Nome e logo: sono la prima cosa che le persone vedono e devono essere capaci di incuriosire, di suscitare il desiderio di saperne di più. Chiaramente meglio se il logo risulta creato da una web agency a seguito di un’attenta progettazione grafica.
  • Gallery: decisamente la sezione più corposa del profilo. Comprende sia le foto caricate dal proprietario dell’azienda sia quelle condivise dai clienti in visita. Curare queste immagini significa curare l’idea che le persone si fanno dell’attività stessa. Il consiglio per l’imprenditore è quello di inserire delle foto realizzate da fotografi professionisti.
  • Informazioni di contatto. Nell’ordine: indirizzo, numero di telefono, eventuale sito web, orari di apertura. Per quanto sia semplice inserirli, è importante tenerli aggiornati. Informazioni complete e aggiornate sono un buon indice di professionalità e affidabilità.
  • Descrizione e servizi offerti. Si tratta di una parte testuale in cui comunicare, con parole semplici e chiare, cosa fa l’attività. E’ un testo funzionale e per questo è perfetto se leggero e conciso.

Questo è tutto quello che le persone vedono quando trovano un’attività iscritta a Google My Business. Questa è la vetrina davanti alla quale passano prima di decidere se entrare o no.

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Google business: come funziona

Una volta creato e verificato il proprio profilo, Google Business entra in azione. Le due vie principali in cui la vostra scheda viene mostrata alle persone sono il motore di ricerca e Google Maps.

Sul motore di ricerca compare nel momento in cui qualcuno fa una ricerca locale. Ad esempio: “ristorante vicino”, “gelateria” o “web agency Milano“. La scheda più adatta apparirà in primo piano nella visualizzazione mobile e lateralmente in quella desktop.

Da qui, chi cerca può vedere le informazioni dell’attività, avviare la navigazione con Google Maps, chiamare per chiedere informazioni o prenotare un appuntamento e tanto altro. Si apre un importante canale di comunicazione tra azienda e potenziale cliente.

Google Maps lavora nello stesso modo. La visualizzazione qui cambia: l’utente può esplorare le mappe da solo scoprendo le attività presenti in una certa zona. Una ricerca su Maps in genere indica una forte propensione alla visita del punto vendita rispetto a una classica ricerca web. Anche in questo caso, un’azienda presente su Google My Business ha un grande vantaggio rispetto a chi non lo è: il poter essere trovata, conosciuta da nuovi clienti ogni giorno.

Per migliorare sempre di più il proprio posizionamento locale con Google My Business è importante lavorare sulla scelta delle categorie e della tipologia dell’attività: più sono precise, più sarà probabile che Google consigli una certa scheda piuttosto che un’altra.

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Google For Business: quali sono i vantaggi per le PMI

Possiamo raggruppare i vantaggi che Google For Business ha per le aziende in tre categorie e da questi si capisce perchè è importante nel marketing per PMI.

La prima è il posizionamento nelle ricerche locali. Tutti cerchiamo almeno una volta al giorno qualcosa su Google Maps: un posto in cui passare la serata, lo studio medico più vicino, la pasticceria di cui ci ha parlato un amico. Essere su My Business significa avere la possibilità di raccogliere queste richieste e farsi scoprire da nuove persone.

La seconda categoria riguarda la comunicazione resa possibile dalle schede di Google My Business. Si tratta di canali diretti, in cui l’azienda può comunicare le proprie informazioni di base e in cui i clienti possono condividere la propria esperienza. Curare la sezione recensioni, significa rispondere e dare spazio sia ai complimenti che alle critiche. Chi arriverà dopo potrà leggere questi scambi e comprendere l’importanza che l’azienda dà al cliente e ai servizi che gli offre.

Dulcis in fundo, Google My Business permette di analizzare tutte le statistiche relative alle visualizzioni e alle azioni compiute sulla propria scheda. Si può scoprire se i clienti hanno visitato il sito, richiesto indicazioni stradali, guardato una foto e molto altro ancora.

In conclusione Google My Business è uno strumento potente nelle mani delle piccole e medie imprese. Bisogna usarlo nella maniera giusta ottimizzando la scheda aziendale.

Leggi anche l’articolo: 7 regole per creare post per Facebook perfetti

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7 regole per creare post per Facebook perfetti

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Postare su Facebook e farlo bene è la base di qualsiasi campagna.

Ormai nessun brand può prescindere dall’esserci sul famoso social blu, per quanto le alternative negli ultimi anni stiano aumentando. Secondo il report Digital 2021 di We are social e Hootsuit, Facebook è ancora l’applicazione con più user attivi al mondo.

Partendo dal presupposto che un argomento come quello di postare in maniera perfetta non può essere esaurito in poche righe e comunque non solo con nozioni tecniche, in questo articolo diamo dei consigli utili per iniziare con il piede giusto. Vediamo insieme come è fatto un post di Facebook, quando è meglio postare e, soprattutto, come farlo al meglio seguendo semplici regole.

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Come sono fatti i post di Facebook

I post di Facebook sono ciò che di più simile c’è a un annuncio tradizionale. I pubblicitari direbbero che sono composti da un’immagine, una headline e un body-copy.

Ognuna di queste tre componenti merita attenzione a partire dall’immagine/video. E’ dimostrato che i post che contengono un elemento visivo sono più efficaci dell’80% di quelli text-only.

Il primo passo, dunque, è scegliere un visual efficace e accattivante: punta a immagini semplici, che mettono in pixel un concetto, ma lo fanno in modo forte e chiaro. Più l’immagine è esplicita e mirata, meno sembrerà scaricata da una libreria qualsiasi giusto per metterci qualcosa.

Una volta scelto il visual, il passo successivo è il testo. Anche qui la semplicità la deve fare da padrona. Evita luoghi comuni, rime gratuite, frasi scontate e cerca di essere diretto, senza ambiguità.

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Come e quando postare su Facebook

Il timing è altrettanto importante quando si posta su Facebook. Il consiglio di massima è postare quando il tuo target è online.

In genere questo accade la mattina, durante la fascia del pranzo e la sera, ovvero i momenti in cui le persone sono in viaggio o in pausa. Ovviamente, però, ogni pubblico ha i suoi orari.

Dopo la pubblicazione il post non va abbandonato: l’algoritmo privilegia e lancia i post che generano interazione fin da subito, dunque bisogna restare online per rispondere ai primi commenti e ripostare eventuali stories dei propri follower per massimizzare la reach del post.

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Come scrivere su Facebook

Entriamo del dettaglio della scrittura del post.

Ecco alcune regole generali per scrivere bene su Facebook:

  • Meno di 100 caratteri. Non essere prolisso, i testi lunghi annoiano in fretta, soprattutto se non supportati da un contenuto di qualità.
  • Devi avere qualcosa da dire. Non postare ‘tanto per’ o i follower percepiranno i tuoi contenuti come spam. Ogni post deve avere un senso, un motivo per esistere.
  • Usa gli hashtag e le emoji. Personalizza il testo con le emoji e amplificane la diffusione grazie agli hashtag.

 

Scegliere il titolo del post

Veniamo ora al titolo del post. Cosa bisogna inventarsi? Niente di sofisticato, pena lo scroll.

Un titolo deve semplicemente dire quel che deve dire, senza fronzoli o abbellimenti inutili. Deve essere ‘breve, ma intenso‘. Cerca quindi di essere sobrio, espressivo e divertente, tanto basta.

Giudica i tuoi titoli come se li avesse scritti qualcun altro e, se ci stai perdendo troppo tempo, fai una pausa e tornaci dopo qualche ora: a mente fresca, vedrai subito quali sono i punti deboli e sarà più facile trovare delle soluzioni.

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Scrivere il copy del post per Facebook

Scrivere il body-copy è meno semplice di quel che sembra. Anche se è un testo più ‘rilassato’ della headline, deve essere altrettanto puntuale.

Non perderti in chiacchiere: ogni parola che scrivi deve aggiungere qualcosa al discorso.

Informa, ma senza essere un automa: stai parlando a delle persone, non a delle macchine. Usa le emoji e un linguaggio semplice.

 

Scegliere foto particolari per Facebook

Anche per le foto e i video non esiste una scienza esatta, ma sicuramente ci sono delle solide linee guida da seguire.

Non scegliere nulla di copiato e incollato da un sito stock, soprattutto se gratuito: probabilmente risulterà un’immagine anonima e già vista.

Scegli un visual semplice, senza troppi elementi e con un focus preciso. Usare occhi e volti è un trucco molto utile per attirare l’attenzione delle persone.

 

Altri trucchi per scrivere un post-perfetto

Concludiamo con un ultimo insieme di consigli e trucchi vari per pubblicare un post di Facebook con i fiocchi:

  • Controlla e correggi: spesso non lo facciamo, ma rileggere ogni parola vi assicurerà di non aver lasciato passare neanche un typo.
  • Dividi in paragrafi: se il testo è più lungo di tre righe, inserisci uno stacco. Basta anche solo un a capo: i muri di testo non piacciono a nessuno.
  • Fai un test: se scrivendo il post ti diverti o ti interessi, probabilmente anche chi lo leggerà lo farà. Chiediti sempre se tu, vedendo il contenuto, metteresti ‘mi piace’ o passeresti oltre.
  • Pianifica: non pubblicare a caso, né a livello di orari né a livello di contenuti. Affidati ad una web agency e pianifica una strategia a lungo termine.

Applicando tutti questi consigli con il tempo vedrai frutti che non ti aspetti.

Leggi anche l’articolo: Affiliate marketing: cos’è, come funziona, esempi

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Affiliate marketing: cos’è, come funziona, esempi

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Un’opportunità per le aziende e per i content creator, una relazione win-win. Questo è l’affiliate marketing.

Più del 16% degli acquisti online oggi viene fatto attraverso un link affiliato. Questa percentuale è destinata a crescere di anno in anno.

Per questo è fondamentale conoscere il mondo dell’affiliate marketing e sfruttarlo nel marketing per PMI. Vedremo insieme come funzionano un programma e una piattaforma di affiliate marketing e faremo anche qualche esempio su come integrarlo nella strategia di comunicazione della tua azienda.

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Affiliate marketing – cos’è

L’affiliate marketing è un contratto per cui un publisher paga una commissione per ogni acquisto che proviene dal traffico generato da un advertiser esterno.

In sostanza esistono due soggetti, un publisher (o retailer) e un advertiser. Il primo vuole promuovere i suoi prodotti o i suoi servizi a più persone possibili. Il secondo, invece, mette a disposizione la sua piattaforma e il suo pubblico per la promozione in cambio di una fee.

La fee può essere di diverso tipo: c’è chi paga per acquisto effettuato, chi per lead per effettuare poi direct marketing, chi per click, chi per impression. Il senso, però, è sempre lo stesso: aumentare il traffico, e dunque le vendite, su un sito web.

L’affiliate marketing viene utilizzato solitamente da chi vuole raggiungere determinati obiettivi:

  • Aumentare gli abbonati al proprio servizio.
  • Aumentare gli iscritti alla newsletter: in questo senso è uno strumento utile nel funnel marketing.
  • Aumentare le vendite dei prodotti.

L’affiliate marketing serve, in generale, a chiunque vuole amplificare la presenza del brand online aumentandone quindi la brand equity.

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Affiliate marketing – come funziona

Domanda e offerta si incontrano in due modi: le piattaforme e i programmi di affiliazione.

Le piattaforme, come Wordfilia o Awin, sono dei siti che raccolgono gli annunci di diversi publisher. Gli advertiser che si iscrivono a questi aggregatori possono decidere a quali campagne affiliarsi e promuovere. Il vantaggio è chiaramente la versatilità e il ventaglio che ogni singola piattaforma propone.

I programmi di affiliazione, invece, sono lanciati da piattaforme come Amazon, eBay e SemRush. In questo caso il traffico viene reindirizzato solamente al sito che ha creato il programma.

Generalmente i brand di piccole e medie dimensioni preferiscono prendere parte alle piattaforme già affermate per avere accesso a un network di affiliati già ben consolidato, piuttosto che creare il proprio programma di affiliazione. Alcune realtà, invece, lavorano su un doppio binario, proponendo direttamente ai propri iscritti dei modi per promuovere personalmente i prodotti.

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Affiliate marketing vantaggi

Qualunque sia la soluzione che scegli per il tuo brand, i vantaggi dell’affiliate marketing sono molti:

  • Conviene: il ROI di un’operazione di marketing affiliato è di 1 a 18. Significa che per ogni euro investito, ne tornano indietro 18.
  • Raggiungi un nuovo pubblico: sfruttando la rete affiliata.
  • Tracci e misuri i risultati: sia le piattaforme che i programmi permettono un monitoraggio molto accurato dell’andamento di ogni prodotto.
  • Mantieni il controllo delle spese: con l’affiliate marketing paghi solo i risultati, senza sprecare denaro. Questo ti permette di dedicarti più serenamente ad altri elementi chiave della tua strategia di comunicazione come magari il branded content marketing.

Fare affiliate marketing ti permette, inoltre, di lanciare velocemente nuovi prodotti, accelerandone l’adozione e la diffusione. E’ ottimo, infine, per aumentare il traffico sul tuo sito.

Ecco, questi sono i motivi per cui sempre più aziende si stanno affidando all’affiliate marketing per aumentare i volumi di vendita. A fronte di svantaggi praticamente inesistenti e alla possibilità di automatizzare/delegare tutto il processo di affiliazione, è la soluzione migliore per molte realtà.

 

Affiliate marketing esempio – Awin

Awin raccoglie più di 15.000 brand che costantemente pubblicano campagne di affiliazione e più di 211.000 advertiser. Nel 2020 i suoi affiliati hanno guadagnato 818 milioni di euro.

Un esempio di successo è la collaborazione tra Awin e Fashiola.

Si tratta di un motore di ricerca di capi d’abbigliamento, particolarmente popolare nel nord Europa. Dopo il suo primo anno di lancio, Fashiola ha visto incrementare il suo valore del 174% anche grazie all’affiliate marketing.

La partecipazione alla piattaforma ha permesso all’azienda di raggiungere un pubblico più internazionale e le statistiche hanno dimostrato come il valore medio del carrello aumentasse notevolmente con il crescere del network di affiliazione.

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Amazon Affiliate Program: il programma più famoso

Chiunque vende su Amazon può iscriversi al programma affiliato proposto dal più grande e-commerce in occidente. Sembra quasi inutile presentare i vantaggi di farlo: soprattutto in Italia, esistono tantissimi advertiser che operano su Amazon e il network affiliato è più che consolidato.

Il guadagno che viene assicurato all’advertiser arriva fino al 12%. La cosa che più attira promotori, però, è la possibilità di guadagnare anche con le cosiddette vendite indirette, ovvero la vendita di un prodotto simile a quello affiliato.

Il programma affiliato di Amazon sicuramente continuerà a crescere nei prossimi anni, proprio come farà la piattaforma stessa.

Leggi anche l’articolo: Cosa è lo storytelling e perchè è importante nel marketing

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Brand equity: definizione, Aaker e Keller

Un paio di scarpe è solo un paio di scarpe? Decisamente no. Un paio di scarpe è un paio di scarpe più la brand equity di chi le ha prodotte.

Immaginiamo di andare a fare shopping. Ci sono due felpe nere, identiche. L’unica differenza è che sulla seconda è stampato un piccolo swoosh bianco e la scritta Nike. Se la prima costa 20 €, la seconda non scende sotto i 60 €.

A rendere queste due felpe diverse è la firma, la marca e tutto ciò che essa porta con sé. I consumatori percepiscono un prodotto di un valore pari a quello di chi l’ha prodotto. Quel piccolo swoosh porta con sé tutto ciò che Nike significa: determinazione, affidabilità, energia, positività, perseveranza, ecc…

Questa è la brand equity e il suo effetto. In questo articolo la esploreremo in tutte le sue sfumature: capiremo come si misura, come si costruisce e come investire per svilupparla sempre di più. Tutto ciò è di fondamentale importanza nel Marketing per PMI.

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Brand equity – definizione

Se dobbiamo dare una definizione da manuale, possiamo dire che la brand equity è il valore intangibile di un brand percepito dagli altri.

Questo valore si costruisce grazie alla brand identity (veste grafica e positioning), alla comunicazione e alle iniziative che la società mette in atto. Queste strategie possono includere branded content marketing, influencer marketing, storytelling marketing, direct marketing.

Esistono due tipi di brand equity:

  • Customer-Based Brand Equity o CBBE: è il valore intangibile percepito dai consumatori. In fase di acquisto, il consumer è disposto, per esempio, a pagare di più per un prodotto con un’alta brand equity. Il marketing è essenziale per costruire la CBBE.
  • Financial-Based Brand Equity o FBBE: è il valore intangibile percepito dai mercati, e dunque dagli investitori. Si potrebbe tradurre con ‘valore finanziario della marca’ e scaturisce dall’affidabilità e dalla solidità percepita della società quotata in borsa.

Che sia ‘a valle’, quindi lato consumatore o ‘a monte’, quindi lato investitore, la brand equity è intangibile, ma permette di creare valore reale nell’economia di un’azienda.

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Brand equity – Aaker

L’economista David Aaker, docente di strategia di marketing della Haas School of Business dell’Università di Berkeley, ha individuato i 5 punti chiave che compongono quel valore invisibile che è la brand equity.

Nell’ordine sono:

  • Loyalty: la fedeltà al marchio. Ovvero, quanto i consumatori tendono a riacquistare un prodotto da uno stesso brand.
  • Awareness: notorietà del marchio. Ovvero, quanto consumatori e non riconoscono il brand e sanno che cosa fa.
  • Quality: la qualità percepità del marchio e dei suoi prodotti.
  • Distinctive traits: tutte le caratteristiche e associazioni che il consumer attiva quando viene nominato il brand.
  • Exclusive assets: brevetti, marchi registrati, oggetti unici che possiede solo ed esclusivamente quel marchio.

Insomma, più un brand è conosciuto, ritenuto affidabile e unico nel suo genere, più il suo valore percepito aumenta e così la sua brand equity. Questa misurazione di Aaker permette di dare un nome alle cose e di individuare i singoli ambiti in cui concentrarsi per costruire la propria brand equity.

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Brand equity – Keller

Kevin Lane Keller, anche lui docente di marketing, ma alla Tuck School of Business del Darthmouth College, crea la piramide di Keller: un processo in 4 passi utili proprio a plasmare il proprio valore intangibile. La divisione in fasi è utile per capire a che punto del processo si trova il tuo brand e anche per sapere a cosa puntare nell’immediato futuro.

  1. Salience, o rilevanza. Il brand deve distinguersi dagli altri, deve essere riconoscibile. Avere una brand identity definita basta per superare questo primo livello.
  2. Performance & Imagery: qui si va oltre all’immagine visiva. Cosa trasmette il marchio? Quali sensazioni evoca? Qual è il suo brand meaning?
  3. Judgments & Feelings: in base alle premesse e alle intenzioni espresse al secondo gradino, come rispondono i clienti? Aderiscono al brand o preferiscono i competitor?
  4. Resonance: la risonanza è l’obiettivo finale: la capacità di creare una relazione cliente-marchio e di fidelizzare i consumatori nel tempo.

Gli strumenti forniti da Aaker e Keller sono fondamentali per costruire e analizzare la propria brand equity. Da un lato abbiamo le sue componenti e dall’altro il processo da seguire per migliorarle.

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Brand equity: perché investire

Perché investire sulla propria brand equity? La risposta più ovvia è “perché genera guadagno”.

Non è sbagliato investire sulla propria reputazione e darle un valore, anche se si tratta di un valore intangibile che non distingue, nella pratica, un prodotto dall’altro.

Le persone quando fanno un acquisto non comprano solo l’articolo, ma anche un mondo di significati e un’assicurazione di qualità: questi due elementi nascono proprio dalla reputazione e dalla narrazione che un brand crea attorno a sé.

Per investire sulla brand equity della tua azienda crea brand awareness, racconta la storia del tuo marchio, organizza eventi, comunica e soprattutto crea e diffondi un’identity forte.

Così facendo sempre più clienti instaurano una relazione salda con il tuo brand e introducono a loro volta altre persone al tuo universo e ai tuoi prodotti, diventando veri e propri brand ambassador. L’unica cosa da fare è iniziare subito e per farlo ti serve una web agency.

Leggi anche l’articolo: Strategia customer centric: perchè è importante

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Strategia customer centric: perchè è importante

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Qual è la cosa più importante per la tua azienda? Se la prima a cui hai pensato è ‘vendere’ o ‘il mio prodotto’ questo articolo è proprio dedicato a te. Si parla di customer centricity da tempo ormai, ma se tutti la capiscono a parole, molti faticano a tradurla in buone pratiche. Oggi vedremo assieme cosa intendiamo davvero per approccio customer centric e come si può fare qualche passo in più verso questa direzione.

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Strategia customer centric: cosa è

L’espressione customer centric si spiega da sé: significa mettere il cliente al centro, tener da conto le sue esigenze, i suoi bisogni e orientare tutta l’impresa a soddisfarli.

L’alternativa è essere product centric. Un’azienda product centered mette sopra tutto il suo prodotto o servizio, cerca di svilupparlo al meglio e misura il suo successo in base alle vendite. Il rischio di essere product centered è di disconnetersi dalla realtà e dal target di riferimento, lasciando per strada le sue opinioni e non seguendo la sua evoluzione.

Chi è custumer centric, invece, si pone come obiettivo primario la soddisfazione del cliente e plasma tutto il resto in base a essa. Se una cosa non funziona, viene cambiata. Se le persone trovano degli inghippi in un servizio, vengono risolti. Il prodotto, dunque, non crescerà di per sé, ma relativamente a chi lo utilizza.

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Customer centricity: fattori chiave ed empatia

Quali sono i vantaggi di avere customer centricity?

La fedeltà prima di tutto. I clienti sono limitati e insostituibili. Perderne uno, significa perdere una risorsa, un’opportunità, ma significa anche fallire nel fornire una soluzione a un problema. Chi incontra un brand customer centric e lo sperimenta sulla propria pelle gli sarà fedele per moltissimo tempo.

Un esempio veloce: un call center che risolve efficientemente i problemi di una persona trasmette un forte senso di professionalità e affidabilità al cliente e segna una tappa importante nella sua consumer experience.

Ancora, l’avere una direzione precisa in cui andare. La crescita dell’azienda non dovrebbe essere direzionata da nessun altro se non dal cliente. Ascoltarlo rende chiari i punti su cui lavorare e gli aspetti che si possono tralasciare. Il risultato è un brand sempre al passo coi tempi e apprezzato da chi lo frequenta.

Infine, l’empatia. Un’azienda che ascolta il proprio pubblico inizia a pensare come lui. Di conseguenza, lui si identificherà sempre più in quel brand, entrandoci in sintonia. Prova a pensare a quali brand ti potrebbero descrivere: sicuramente sono tutti customer centric.

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Il cliente al centro: la customer experience

Il campo in cui si gioca la partita della customer centricity è proprio la customer experience. Con questo termine intendiamo tutto il rapporto che ogni cliente sviluppa con l’azienda, dall’inizio alla fine.

Come può accedere al tuo servizio? Riesce a orientarsi senza problemi nel tuo negozio o nel tuo portale? Con quali bisogni si rivolge a te? Riesci a soddisfarli? Come abbandona il tuo environment? Ma soprattutto, vuole tornarci? Queste sono solo alcune delle domande che un brand deve costantemente farsi se vuole essere davvero customer centric.

Ma come si può fare a tradurre tutto questo in pratica?

  • Vai oltre l’ascolto. Ascoltare non basta, servono fatti, decisioni che traducono l’ascolto in reazioni.
  • Coinvolgi tutti. Il call center non deve essere l’unico a preoccuparsi delle persone e neanche il CEO. Ogni singolo reparto deve avere come obiettivo principale il far vivere una bella esperienza alle persone.
  • Misura e misura ancora. Usa tutti i dati di cui sei in possesso. Falli analizzare da un data analyst, ricava degli insight da tradurre in azioni. Fai delle indagini su problemi mirati. Se non sei in grado di analizzare e compiere concretamente tutto questo rivolgiti ad una web agency data driven.
  • Pazienta. La fiducia si ottiene col tempo ed essere customer centric per un mese non servirà a molto. Persevera e continua a migliorarti.

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Esempi di strategie customer centric

Quali possono essere degli esempi di strategie customer centric?

Parlando di siti web, si può tracciare il percorso dei clienti per capire se riescono a trovare quel che cercano. Se si inceppano, magari in una landing page, bisogna capirne il motivo e correre ai ripari. Ovviamente, si possono organizzare rilevazioni preventive con eye tracker e simili prima di pubblicare qualsiasi aggiornamento. In questo modo si riesce anche ad ottimizzare il funnel.

Fai semplici domande alle persone per ricevere un feedback breve, preciso e istantaneo. Niente di complesso, altrimenti nessuno risponderebbe, però qualcosa di utile a verificare se le cose vanno per il meglio.

Segmenta il target di riferimento. Crea dei profili cliente: chi arriva sul sito? Quali necessità hanno queste persone? Un target segmentato è utilissimo per capire come strutturare la tua strategia di fidelizzazione anche ai fini del direct marketing.

Insomma, si può fare molto, ma ciò che conta è che lo sforzo sia coerente e condiviso da tutta l’azienda.

Leggi anche l’articolo: Live streaming commerce: un altro tassello in una strategia di comunicazione efficace

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Live streaming commerce: un altro tassello in una strategia di comunicazione efficace

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Con la pandemia abbiamo smesso di organizzare riunioni, serate, fiere, eventi dal vivo, ma non siamo rimasti con le mani in mano. Lo streaming è il mondo che più di tutti ha visto una crescita esponenziale in questo periodo.

Che sia la call di amici su Zoom, l’evento in première su Youtube o la diretta di un influencer di Instagram passiamo la nostra vita sociale live sempre più online. Certo, ora lo facciamo per necessità, ma la previsione è che la tendenza resterà questa.

La galassia dello streaming è varia: c’è chi lo usa per fare live streaming commerce, chi fa social live streaming, gaming, o eventi in streaming. Oggi esploriamo le potenzialità di questo mezzo per i brand e la comunicazione in generale. Lo usiamo sempre di più, ma lo conosciamo davvero?

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Live streaming commerce: cosa è e come funziona

Il fenomeno in assoluto più interessante per noi occidentali è il live streaming commerce.

È una pratica molto diffusa nei paesi asiatici, soprattutto in Cina, e oggi sta timidamente bussando alle porte d’Europa. Di cosa si tratta? Avviare uno streaming in cui vengono venduti istantaneamente dei prodotti. Come una televendita, ma più accattivante e interattiva.

Il live streaming commerce fa leva sulla FOMO (Fear Of Missing Out), ovvero la paura delle persone di perdere un’occasione, una possibilità. In più, si cerca sempre più di umanizzare l’acquisto e di replicare, per quanto possibile, l’esperienza retail. Rappresenta una sfida per le aziende iniziare a lavorare così, perché non sono abituate a farlo, ma è anche una bella possibilità.

L’interazione con gli utenti diventa fondamentale, vicina e istantanea e se è un key influencer a condurre la diretta i vantaggi aumentano: di lui le persone si fidano e riuscirà a trasferire la sua notorietà sui marchi e i prodotti che presenterà.

Oggi esiste già qualcosa di simile al live streaming commerce? Sì, gli unboxing, i try on e i tutorial sono dei format molto simili e stanno preparando il terreno a questo salto di ‘qualità’.

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Social live streaming: il tema e la tipologia di diretta

La galassia dello streaming, però, non si esaurisce con la vendita live, anzi, il social live streaming è il contenitore più ricco e più noto del momento.

Si indica con social live streaming qualsiasi diretta con scopo relazionale e di intrattenimento. Praticamente tutto dall’influencer di TikTok che parla con i suoi follower alle dirette Instagram in cui una PMI presenta i suoi prodotti e servizi.

La diretta social può essere più o meno strutturata: si può scegliere un approccio più semplice e spontaneo oppure adottare una scaletta precisa, disegnare uno storyboard e allestire uno studio: questa strutturazione è necessaria quando si crea un progetto editoriale legato allo storytelling. La bravura sta nel non far percepire un’eccessiva rigidità organizzativa, ma lasciare comunque trasparire la naturalezza che serve proprio a coinvolgere chi ci guarda.

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Le tipologie di diretta social sono davvero varie e l’unico limite di format è la fantasia. Si può fare un’intervista, un vlog live, una gaming session, un giveaway, ecc…

I social live streaming hanno il pregio di fare il brand vicino, vivo accanto alle persone, disponibile al dialogo. Possono essere viste come una finestra sempre aperta tra i due mondi, come una terra di mezzo in cui marchio e vita del customer sfumano e si incontrano. I risultati maggiori si ottengono se lo streaming avviene all’interno di una campagna di coinvolgimento diretto del target di riferimento, ovvero in un piano di direct marketing.

Dirette Facebook professionali: elementi di successo e consigli pratici

Come fare dirette Facebook (e non solo) di successo? Innanzitutto è sempre meglio rivolgersi a una web agency che ha esperienza nel campo della gestione social network: il fai da te raffazzonato si vede subito in una diretta e non comunica un’immagine di precisione e di professionalità del brand.

Possiamo dividere le nostre procedure e consigli in due livelli derivanti dall’esperienza: il primo sarà contenutistico e il secondo formale. Uno streaming ben organizzato nei suoi temi e curato nella realizzazione non può che essere un evento di successo. Iniziamo.

Consigli contenutistici: come fare dirette sensate.

  • Decidiamo prima il tema dello streaming: accendere la telecamera a caso sperando che qualcuno si colleghi senza avere un piano porta solo verso un disastro certo. Di cosa parlerai? Con chi? Perché qualcuno dovrebbe ascoltarti?
  • Elaboriamo una scaletta: non c’è niente di peggio del vedere uno streamer che non sa più che fare o che dire. Se sai che la diretta durerà un’ora, scegli come riempirla. La scaletta sarà il tuo punto d’appoggio, ma non farla diventare una gabbia. I silenzi lunghi sono sempre sinonimo di impreparazione.
  • Disegniamo uno storyboard: Decidiamo cosa inquadrare e come farlo. Scegli più di una inquadratura per non annoiare. Solitamente utilizziamo almeno due camere per cambiare angolazione di ripresa.

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Consigli pratici: come fare dirette belle.

  • Utilizziamo attrezzatura di qualità: No, l’iPhone non basta, soprattutto se sei un brand di livello perchè devi restituire un’immagine curata in ogni aspetto.
  • Facciamo i test: Evitaiamo gli inconvenienti tecnici. Fare dirette che iniziano con 10 minuti di “si sente?” oppure “mi vedete?” fa allontare immediatamente almeno la metà del pubblico.
  • Prepariamo grafiche e animazioni: Su questo Twitch ha tanto da insegnare. L’immagine nuda è spontanea, ma anche poco professionale. Creiamo grafiche e animazioni accattivanti che arricchiscono l’evento e tengono vivo l’interesse di chi segue.

Il consiglio finale, quello più importante, è però questo: bisogna fare solo cose che hanno senso per il professionista e il brand. Non devi fare per forza tutto solo perché si può fare. L’idea e la coerenza del contenuto vincono sempre sul resto.

Leggi anche l’articolo: Branded content marketing: perché puntare su questa strategia di comunicazione

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Influencer marketing: quando e perché

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I brand stanno andando a caccia di influencer, ma va sempre bene? La risposta è ni: l’influencer marketing va bene se inserito all’interno di una campagna comunicativa organica ampia di cui rappresenta una parte. Quindi in questo articolo faremo una panoramica generale e daremo delle linee guida su quando e come è opportuno collaborare con i ‘VIP’ del web. Sono tantissimi, infatti, i vantaggi di una campagna di influencer marketing curata e opportuna: flessibilità, legami forti con il target e brand awareness i principali.

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Influencer marketing – cos’è?

La definizione è presto detta: far comunicare il brand attraverso chi esercita influenza su un certo target.

È una tecnica che da qualche anno sta spopolando sul web e le aziende ci si affidano sempre più volentieri perché funziona. Ma quando è opportuno fare influencer marketing?

  • Quando sei un brand consolidato: una startup ai primi giorni o un’impresa che ancora deve trovare i suoi ritmi e la propria rotta non ne beneficieranno. È uno strumento potente, ma se lo usi troppo presto sarà difficile riguadagnare la fiducia del pubblico. Se non hai un prodotto/servizio di qualità da vendere, se non hai una struttura solida, fai altre scelte.
  • Come strategia complementare: non si può vivere solo di influencer marketing. Prevedi un piano di comunicazione più ampio, che tocchi più media e più formati. Per il consumatore è importante anche vederti per le strade digitali: per esempio nelle campagne di direct marketing dedicate, affiancando magari anche Facebook Ads oppure articoli ottimizzati per la SEO dove si parla del tuo brand. Così l’immagine che avrà di te sarà quella di un marchio molto più serio, professionale e affidabile.

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Scegliere gli influencer è il passo successivo e, forse, il più importante. Ne esistono di tre tipi: social broadcaster, mass influencer e potential influencer.

I social broadcaster sono persone molto famose al di fuori dei social e vengono comunemente considerate ‘celebrità’. Cantanti, sportivi, conduttori televisivi, ecc… Hanno un pubblico molto vario e un rapporto mediamente debole con i propri fan. Il vantaggio? I grandi numeri.

I mass influencer hanno una forte presenza sui social e sono esperti di un certo settore. Sono dei grandi aggregatori di pubblico attorno a un interesse preciso che varia dal lifestyle alla cucina, dai videogame alla moda. Il loro vantaggio è la competenza nel loro campo.

I potential influencer, invece, raccolgono target molto piccoli soprattutto in virtù del rapporto quasi personale che riescono a creare con le persone. La forza di questo rapporto è anche il loro pregio più grande.

In base al proprio budget e ai propri obiettivi si può optare per un gruppo piuttosto che l’altro. In generale, però, un mix delle tre formule è una soluzione migliore, in particolare per i grandi marchi.

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Social influencer marketing: consigli pratici e canali

Una volta che hai selezionato con chi collaborare, è arrivato il momento di definire i dettagli di questa collaborazione. Le strade da percorrere sono infinite e la creatività è l’unico limite. La cosa più importante, però, è fare in modo che la partnership sembri sempre sensata. Non c’è nulla di peggio che vedere il proprio beniamino ‘vendersi’ a un marchio giusto per fare qualche soldo in più.

Ciò detto, vediamo quali sono i metodi più utilizzati dai brand oggi per fare influencer marketing:

  • Contenuti sponsorizzati: che sia una story, un video o un post, si tratta di un’unica apparizione del brand sul profilo dell’influencer.
  • Codici sconto e giveaway: organizzare concorsi assieme alla community dell’influencer è sempre una buona idea. Attiva il pubblico in una dinamica di gioco e l’impatto sarà positivo non solo per chi vincerà, ma per tutti quanti.
  • Sostegno: un finanziamento più corposo nei confronti dell’attività di un’influencer. Esattamente come accade per i film o gli eventi.
  • Brand ambassador: è la scommessa più grande che si possa fare ed è possibile solo se l’influencer crede davvero nell’azienda che rappresenterà. E’ l’inizio di una collaborazione a lungo termine.

Parlando di canali, invece, è presto detto: Instagram, Youtube e Tik Tok sono le piattaforme più redditizie e in cui il fenomeno si sta sviluppando sempre più. Anche Facebook, Twitch, Twitter e Pinterest possono essere buone scelte ma, in definitiva, la decisione del canale dipende dalle persone con cui decidi di collaborare.

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Marketing influencer: esempi

Di esempi di marketing influencer ce ne sono tantissimi. Ne abbiamo selezionati alcuni per mostrare in azione i punti di prima:

The Jackal Replay: i Jackal sono dei mass influencer che stanno diventando ormai social broadcaster. Con X-Factor, hanno realizzato uno show in onda prima di ogni puntata in cui ricapitolano ciò che era accaduto in precedenza.

Marcello Ascani x Tinaba: il giovane youtuber si occupa di viaggi e finanza personale. Con Tinaba ha prodotto due video: uno in cui viene ospitato in azienda e intervista diverse persone e uno in cui spiega come lui usa i servizi del marchio.

Sespo x Doritos: forte dei suoi 1.8 milioni di follower, Edoardo Esposito pubblica questo post singolo in cui mangia delle Doritos.

ClioMakeUp: pubblica costantemente story e post di trucchi che utilizza. Suoi e di diverse aziende.

Leggi anche l’articolo: Branded content marketing: perché puntare su questa strategia di comunicazione.

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Branded content marketing: perché puntare su questa strategia di comunicazione

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I brand fanno pubblicità, ma possono anche comunicarsi in altri modi? Si e il branded content marketing è uno di questi.

Ormai non è più una novità riservata a pochi pionieri dell’advertising: raccontare storie e creare contenuti vende e sempre più marchi stanno intraprendendo questa strada.

In questo articolo vedremo cosa significa branded content, come si fa e anche qualche storia di successo. Preparatevi ad abbandonare il piedistallo dell’advertising, perché tra la gente si sta davvero bene.

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Branded content – significato

La definizione di branded content è presto detta: produrre contenuti di vario genere per veicolare i valori del brand e innescare interazione con il pubblico.

Il punto di forza è proprio l’interazione: raccontando una storia, i brand instaurano un rapporto diverso con il pubblico che risulta più diretto rispetto alla pubblicità tradizionale e si pongono allo stesso livello delle persone, venendogli incontro e, semplicemente, parlando come si farebbe ad un amico. Se paragoniamo la pubblicità a un proclamo annunciato a gran voce, i branded content sono delle conversazioni informali come delle chiacchiere al caminetto.

Quando un marchio fa branded content cerca di raccontare qualcosa di utile per il pubblico. Non pensa a vendere, non vuole propinare un prodotto o un servizio. Vuole dire la sua, esprimere un pensiero, un valore. Il percepito è quello di un dialogo sincero, senza secondi fini.

Da qui gli altri vantaggi di questa pratica: aumentare l’awareness, ma soprattutto la qualità del legame tra customer e azienda. Ancora, aumenta l’engagement, la fidelizzazione e la percezione di un brand che è molto più di un simbolo rappresentato dal logo.

Il branded content è diverso dal native advertising. Con ‘native advertising’ si intende la produzione di contenuti sponsorizzati nella forma ‘nativa’ della piattaforma scelta. Ad esempio, un articolo sull’energia rinnovabile scritto da Enel su Wired.

Queste operazioni comunicano l’azienda, ma non sono necessariamente contenuti che generano interazione. Spesso si presenta semplicemente quel che fa l’azienda senza andare oltre: nel nostro esempio, si racconterebbe di come Enel affronta la sfida delle rinnovabili, ma non si cerca di trasmettere un valore aziendale generando discussione. Ciò non toglie, però, che ci siano casi di native advertising che possiamo anche considerare branded content.

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Branded content marketing – tipologie

Si può fare branded content marketing in tanti modi quanti sono i media e i linguaggi utilizzati dagli esseri umani. Branded content può essere un cortometraggio, una competizione sportiva, ma anche un quadro, una canzone, una raccolta di poesie.

Quindi, come scegliere? La regola d’oro è optare per ciò che ha senso inserito in un piano di marketing per PMI o di marketing sanitario. Non bisogna fare un video perché tutti lo fanno come non si deve escludere a priori un’esposizione d’arte perché (quasi) nessuna azienda l’ha mai realizzata. Se ha senso, funziona. Se si prendono decisioni ‘pigre’, il pubblico se ne accorge.

Ciò detto, possiamo comunque individuare una classificazione di diversi modi di fare contenuti branded:

  • Raccontare una storia: la strada più percorsa. Ci si trasforma in narratori per raccontare una storia che trasmetta gli ideali del brand. In due parole si fa storytellling d’impresa.
  • Intrattenere: creare dei momenti di intrattenimento inseriti nella cornice di significati del brand è un’ottima operazione. Più leggera, più divertente.
  • Aprire dibattiti: lanciare un tema, innescare discussioni. Il ‘content’ è minimale e sta più nel gestire la discussione e trarne le conclusioni.
  • Servizi utili: inventare un servizio accessorio al brand che sia coerente con i suoi valori.

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Branded content – esempi

Le storie di successo di aziende che hanno fatto operazioni di branded content marketing sono innumerevoli. Ce ne sono alcuni, però, che val la pena ricordare.

Le soap opera: può sembrare strano, ma sono state le prime forme di branded content. Nascono in radio, sono dei racconti dedicati alle casalinghe e per questo andavano in onda la mattina. Sponsorizzate dalle aziende di saponi e detersivi, sono un classico esempio di branded content legato all’intrattenimento.

RedBull: un’azienda che da sempre punta tutto sul branded content. Dopo la campagna ‘RedBull ti mette le ali’ smette di fare advertising classico e inizia a organizzare competizioni sportive, tornei videoludici e anche a produrre documentari. Sicuramente un asso del branded content marketing.

Despar: un caso recente, a inizio 2020. Despar commissiona a diversi illustratori la creazione delle sue Digital Visual Novels. Su Instagram, vengono pubblicati questi racconti accompagnati dai disegni degli artisti.

Nike Training App: anche Nike è un brand esperto in questo campo. Arriva, infatti, a inventare un’applicazione per allenarsi a casa che durante la pandemia ha spopolato. Bella, coerente, ma soprattutto utile.

Dumb ways to die: una canzone divertentissima lanciata dalla metropolitana di Melbourne per convincere le persone a fare attenzione a non morire stupidamente non rispettando le misure di sicurezza. Un mix tra cartoon, humor nero e storytelling che ha raggiunto rapidamente la viralità.

Insomma, gli esempi potrebbero continuare all’infinito: gli articoli interattivi tra NYT e Netflix, i migliaia di cortometraggi e di film branded, la campagna di Dove (Real Beauty) e tanti altri. Ma quale sarà il prossimo caso di successo?

Leggi anche l’articolo: Facebook Ads: come funziona, obiettivi, target e struttura.

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